Sul salario minimo
Il dibattito sul salario minimo è stato immediatamente affossato nonostante la sua urgenza sia evidente, a partire semplicemente dai dati forniti dall’ISTAT sul reddito delle lavoratrici e dei lavoratori del paese: anche solo la versione light proposta da PD e M5stelle cambierebbe i salari di circa sei milioni di occupate/i.
Perché il governo oppone un rifiuto assoluto all’introduzione di una misura in fondo presente in gran parte dei paesi europei?
Per rispondere è utile una lettura approfondita dei dati riguardanti i salari e la povertà nel nostro paese.
L’ISTAT nel suo ultimo rapporto annuale, riferito all’anno 2022, conferma come sia in corso un attacco di notevoli proporzioni contro la condizione delle lavoratrici e lavoratori subordinati; un attacco non dovuto a fattori contingenti come la pandemia da Covid 19 o la guerra Russia-Ucraina, ma dovuta a fattori profondi che riguardano la distribuzione del reddito in Italia.
Nel 2021 era in condizione di povertà il 7,7% dei nuclei conviventi, pari al 9,1% della popolazione. Nel 2022 i nuclei nelle stesse condizioni sono diventati l’8,5% pari al 9,7% della popolazione. In altre parole in Italia ci sono 2.180.000 nuclei, pari a 5.600.000 persone che versano in condizione di povertà.
Detta in modo semplice, quasi il 10% della popolazione in Italia necessita di aiuto per sopravvivere:
– di questa parte della popolazione, il 13,4 (cioè 127.000 persone) sono minori
– se prendiamo come campione i soli nuclei dove il riferimento (ossia chi possiede il reddito maggiore) è un operaio, l’indice di povertà sale al 14,7%
– se prendiamo come riferimento i nuclei composti in tutto o in parte da stranieri, l’indice schizza addirittura al 28,9%; in condizioni di denatalità accentuata (nel 2022 rispetto al 2021 abbiamo assistito a una riduzione delle nascite dell’1,7%, ossia 393.000 nascite in meno) dove le necessità delle imprese tendono sempre più ad essere coperte dall’immigrazione, notiamo che le ed i migranti che arrivano in Italia sono destinate/i alla povertà in misura assolutamente radicale.
Questi numeri ci dicono che fissare un pavimento minimo nella retribuzione oraria è una necessità stringente per una parte sempre più consistente del paese.
Nonostante questo il CNEL, cui il governo ha delegato la riflessione sul salario minimo, per bocca del suo presidente (il famigerato Brunetta che a suo tempo si distinse per una campagna contro le ed i lavoratori pubblici) ha bocciato ogni ipotesi in tal senso. In particolare, nella sua relazione, Brunetta ha adeguatamente nascosto alcuni dati relativi alla contrattazione ed alla sua efficacia che merita di ricordare:
● la mancata attuazione degli articoli 39 e 40 della Costituzione repubblicana da cui consegue che la rappresentanza sindacale dipende da accordi privati (quelli tra Cgil Cisl e Uil e le varie associazioni padronali) e non da una legge, per cui i contratti firmati da queste associazioni riguardano esclusivamente le aziende aderenti ai vari gruppi padronali. In altri termini un’azienda può decidere a piacere quale contratto utilizzare, ovviamente cercando di scegliere il peggiore per chi lavora. Nel 1962 la Legge Vigorelli che estendeva i contratti collettivi a chiunque lavorasse in un determinato settore venne bocciata dalla Corte Costituzionale proprio perché non era stato risolto il nodo della rappresentanza; la pretesa di esclusività propria di Cgil Cisl e Uil (ben accetta peraltro dalle associazioni padronali più grandi) si regge proprio sulla mancanza di una legge sulla rappresentanza sindacale che misuri in modo corretto le dimensioni delle forze sindacali;
● la stessa Costituzione impone all’articolo 36 un minimo salariale vitale a prescindere dalla contrattazione che, quindi, non è l’unica fonte di riferimento per quanto riguarda i livelli salariali;
● i lavori meno protetti non sono tutelati da nessun CCNL, oltretutto alcuni CCNL (tipico il caso del multiservizi e dei servizi fiduciari), pur essendo firmati da Cgil Cisl e Uil e da associazioni padronali come Confindustria, hanno valori minimi inferiori a qualsiasi proposta di legge sul salario minimo e sono stati spesso contestati e condannati in Tribunale;
● il 57% dei CCNL sono scaduti e non si vede all’orizzonte la loro possibilità di rinnovo.
A questi elementi già decisivi si deve aggiungere una considerazione che viene raramente svolta da chi si occupa di queste vicende. Il peso del lavoro di cura è diventato di nuovo un elemento strutturale della quotidianità delle lavoratrici (e in parte minore degli stessi lavoratori). I continui tagli alla sanità ad al welfare hanno consegnato ai nuclei conviventi (familiari o meno) l’onere dell’assistenza alle/ai minori, alle anziane/i, alle malate/i. Allo stesso tempo la precarietà delle vite proletarie costringerebbe all’utilizzo di collaborazioni domestiche per la cura, collaborazioni che evidentemente le ed i working poors non possono permettersi visto il loro costo. Si crea così un circolo vizioso dove chi è in povertà non può permettersi né il lavoro né il non lavoro e non riesce mai ad uscire dalla propria condizione. In particolare le donne si trovano ad avere in carico un certo numero di lavori sottopagati cui devono sommare la cura verso familiari o conviventi in condizione di necessità di assistenza, finendo per non riuscire mai ad uscire dalla situazione di povertà assoluta.
I tagli continui al welfare, alla scuola, alla sanità all’assistenza sono l’effetto diretto della scelta governativa (non solo di questo governo) di effettuare una pesca a strascico finalizzata a reperire le risorse per finanziare l’imprenditoria parassitaria italiana che vive di bassi salari e di appalti pubblici. Non solo le piccole e medie imprese, da sempre bacino di consenso soprattutto a destra, ma anche le restanti grandi imprese nazionali vivono soprattutto grazie al drenaggio continuo di risorse pubbliche a loro vantaggio.
Le riforme fiscali che hanno avvantaggiato imprese e detentori di capitale (che oggi pagano proporzionalmente di meno delle lavoratrici e dei lavoratori) sono la pratica quotidiana in cui si sono esercitati governi di diverso colore e che hanno mirato soprattutto alle nostre tasche con conseguenze visibili proprio nelle statistiche sulla diffusione della povertà.
In questo continuo drenaggio di risorse finalizzato a mantenere in piedi un sistema d’impresa altrimenti non concorrenziale nell’attuale mercato mondiale va cercata la ragione di fondo della contrarietà del governo ad ogni ipotesi di salario minimo e la stessa decisa volontà di abbattere quel reddito di cittadinanza che, con tutti i suoi limiti, lo aveva sostituito come pavimento salariale in questi ultimi anni.
L’ipotesi del governo è quello di disciplinare le classi lavoratrici tramite il rinforzo dell’autoritarismo, sia su di un piano meramente repressivo, sia su quello istituzionale dove la compagine governativa lavora alla riduzione della rappresentanza politica a favore di un assetto autoritario e post democratico.
Lo scopo ultimo rimane lo stesso: disciplinare la società e, soprattutto, le classi lavoratrici in modo da ottenerne la resa ai voleri delle imprese e costringerci ad accettare qualsiasi lavoro in cambio di qualsiasi salario.
Un mondo di poveri e povere a maggior gloria della sopravvivenza delle imprese nazionali, garantito da governanti onnipotenti e dal manganello della polizia. Non a caso l’unica categoria di lavoratori pubblici che hanno ottenuto dal governo un buon stanziamento per il rinnovo dei loro contratti e per l’aumento dell’organico sono quelli del comparto sicurezza, dalla polizia ai carabinieri, passando per la guardia di finanza e la polizia penitenziaria…
Si chiama disciplinamento.
Stefano Capello